17 dicembre 2012

Rischi terapeutici




Si dice che non si finisce mai d'imparare, e questo, nella terapia, è vero per il paziente come per il terapeuta, purché sia disposto a mettere in gioco se stesso e a dialogare costantemente con i propri pregiudizi.

È arcinoto che in psicoterapia, ad esempio, non ci debbano essere legami di conoscenza tra il sistema d'appartenenza del cliente e il terapeuta.

Le circostanze relazionali però a volte possono spingere il professionista a pensare che una parziale eccezione possa talvolta essere praticabile.

Occorre che il terapeuta si muova in questi casi con una cautela estrema, per evitare di cadere nelle numerose trappole che questo spinoso scenario può creare.

La familiarità del terapeuta nei confronti del paziente, e del suo contesto relazionale rende ancor più necessario che i pre-giudizi (giudizi a priori) siano considerati e, sempre molto faticosamente, tenuti a bada.

Le relazioni in comune tra terapeuta e paziente implicano il rischio di discussioni, commenti e chiacchiere esterne al percorso terapeutico, offerte sotto l'apparenza di innocue, e magari "forse" anche ingenue (?) domande colloquiali (come va? viene? come sta andando? come mai non è guarito magicamente dopo tre colloqui? etc.). Sono queste modalità intrusive e di tipo voyeuristico che implicano l'intorbidamento del legame paziente-terapeuta, il quale invece deve mantenersi quanto più possibile limpido e avulso da questo tipo d'invischiamenti ed evidenti e grossolani tentativi di manipolazione del lavoro terapeutico.

Il rischio è che la terapia funzioni solo fino a quando non si incontrino punti critici, che ad esempio implichino un cambiamento profondo del paziente.
Fino a quando il cambiamento è ritenuto non pericoloso per il sistema d'appartenenza, pronto invece a ostacolarlo laddove non risulti più "compiacente" e aderente alle aspettative proiettate sulla terapia.
Il cambiamento tanto agognato diviene visibile: è desiderato e temutissimo al tempo stesso.

È questo il momento in cui la familiarità tra il sistema d'appartenenza del paziente e il terapeuta risulta essere soltanto un grave ostacolo alla terapia.
Il cambiamento può essere percepito come rischioso non dal solo sistema paziente-cliente, ma da tutto il sistema allargato dei rapporti comuni.

È "normale" che un paziente non ce la faccia, che senta di non desiderare la prosecuzione del cammino percorso, che faccia innumerevoli tentativi per far fallire la terapia.
Sovente ciò può dipendere dal fatto che non sia consapevole di quanto il suo stesso ambiente d'appartenenza, che pure superficialmente vorrebbe un suo cambiamento, possa remare contro il successo e la prosecuzione del lavoro, quando questo sia avvertito come un'alterazione di equilibri preesistenti, di evoluzioni "consentite" ma solo sulla carta.

È "normale" anche che il paziente attacchi la terapia e il legame terapeutico. È una delle tantissime cose che possono accadere a un terapeuta quando fa il suo delicato, bellissimo, ma talvolta ingrato lavoro.
Laddove il paziente decida di "darsi alla fuga", potrebbe anche non trovare migliore strategia che squalificare il terapeuta agli occhi della sua cerchia relazionale inviante.

Questa reazione può generare un cortocircuito stabile che rende impossibile la prosecuzione etica, deontologica e materiale del lavoro.
E anche fino qua, sono conseguenze inevitabili dei rischi del mestiere.

Che i pazienti dicano "bugie" fa parte del loro mestiere di pazienti: certo è un elemento che mostra immaturità evolutiva (se non anche un disturbo della personalità) e che va considerato nell'eventuale prosieguo della terapia. Altrettanto "normale" è che tentino d'interrompere la terapia. Con possibili e anche gravi conseguenze iatrogene per il paziente.
È compito del terapeuta mantenere il timone ben saldo e proseguire nella conduzione, o dove richiesto, sospendere e/o interrompere il percorso terapeutico.

Il problema causato dal contesto "inquinante" la relazione terapeutica è che il sistema relazionale inviante il paziente possa trovare "comodo" assecondare le scuse che il paziente stesso si dà per interrompere il lavoro. Il sistema inviante può ritenere utile (e financo necessario) per la sua stessa stabilità e sopravvivenza fare in modo che l'alleanza terapeutica, tanto faticosamente costruita, naufraghi.

È proprio il grado di confidenza tra gli elementi del sistema relazionale inviante il paziente e il terapeuta che finisce per essere lo scoglio titanico contro cui rischia di affondare il lavoro terapeutico.

Può sembrare paradossale che le relazioni in comune tra terapeuta e paziente, che inizialmente hanno "favorito" (favorito tra ciuffi di virgolette) l'inizio del percorso, siano la causa principale del suo fallimento, ma a un'analisi più appassionante e spassionata, ne risulta evidente il senso.

Lo svincolo del paziente è spesso desiderato dal contesto relazionale solo sulla carta. Non appena comincia a diventare possibile, i componenti il sistema possono rendersi conto di quanto il cambiamento possa essere un pericolo per il sistema stesso. E quindi diventa temutissimo, perché rischia di modificare uno status quo-ante che può essere "aggiustato", ma non più di tanto.

Il messaggio iatrogeno trasmesso dalla famiglia è: "Cambia, ma non cambiare! Diventa indipendente, dipendendo da me!".
Come nelle migliori ingiunzioni paradossali schizofrenogeniche, il destinatario del messaggio non può che sbagliare, qualsiasi cosa faccia.

Questa "posizione insostenibile" lo farà rimanere immobilizzato in una dipendenza falsa, ostile e ambigua; il vero sé sarà sconfitto e intrappolato nell'incastro (scacco matto) del double bind veicolato dalla comunicazione del sistema d'appartenenza.



A sua volta, questo comportamento è figlio anche di una percezione banalizzata e cialtrona della psicoterapia, vista con le lenti di credenze e pensieri magici (grezzi e superficialissimi). Il paziente non "guarisce" dopo qualche colloquio. La durata del percorso non è prevedibile a priori. La terapia non agisce come la bacchetta magica della fata turchina. Non è una "simpatica" lettura di arcani maggiori e minori. Non è un doposcuola, né un dopolavoro. Non è un presidio ortopedico su misura. Non è una ricetta di cucina, in cui il cambiamento (uh, ma che bello, proviamoci, sì, sì) è ambito come la sapidità di una pietanza purché sia q.b., come il sale nelle ricette appunto.



Last, but no least, il rapporto allargato terapeuta-sistema d'appartenenza complica (e di parecchio) la transazione economica relativa alla terapia.
Per quanto la cifra possa essere irrisoria (o perfino una pura formalità) quando è l'ora di pagare, si sa che anche le migliori motivazioni (spesso magiche e del tutto superficiali, come ho già detto) scemano. E anche miseramente ...
La terapia va adeguatamente pagata, e in ogni caso!

Come sosteneva ormai un secolo fa il buon vecchio e caro Freud: "Quanto al tempo io seguo esclusivamente il principio del noleggio di una determinata ora. Ad ogni paziente viene assegnata una certa ora ancora disponibile nella mia giornata lavorativa; quest'ora è sua ed egli deve risponderne anche se non la utilizza".

... ça va sans dire!?!

Gli incidenti di percorso in psicoterapia possono essere molteplici e purtroppo talvolta inevitabili.
Compito del terapeuta è accorgersene, è apprendere dall'esperienza, per cercare di migliorare e aumentare sempre più il grado di libertà, curiosità e neutralità, nel rispetto dei Sistemi con cui lui e i suoi pazienti vengono in contatto.
Vale la pena tenere sempre a mente (e a chiare lettere!) che più i clienti che arrivano in terapia sono distanti dal mondo del terapeuta, di gran lunga maggiori sono le probabilità di successo della terapia.
Per l'interesse e il benessere di tutti i sistemi coinvolti nella Complessità del processo sistemico-relazionale.


Approfondimenti:


Bianciardi M., Galvez Sanchez F., Psicoterapia come etica. Condizione post moderna e responsabilità clinica. Antigone Edizioni. Torino. 2012.


Bion W. R., (1957), Attacchi al legame. In Spillius E. (a cura di) (1988), Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi. Volume Primo: la teoria. Astrolabio. Roma. 1995.


Bion W. R., (1962), Apprendere dall'esperienza. Armando Editore. Roma. 1972.


Bion W. R., (1970), Attenzione e interpretazione. Armando Editore. Roma. 1973.


Cecchin G., Lane G., Ray W.A. Verità e pregiudizi. Un approccio sistemico alla psicoterapia. Raffaello Cortina Editore. Milano. 1997.


Freud S., (1913), Inizio del trattamento. In Opere, vol. 7. Bollati Boringhieri. Torino, 1989.


Hillmann J., (1964), Puer Aeternus. Adelphi. Milano. 1999.


Laing R. D., (1959), L'io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Einaudi. Torino. 2001.


Laing R. D., (1959), L'io e gli altri. Psicopatologia dei processi interattivi. Rizzoli. Milano. 2002.


Laplanche J., B. Pontalis, (1967), Enciclopedia della psicoanalisi. Laterza. Roma-Bari. 1973.


Winnicott D. W., (1974), (Fear of breakdown) La paura del crollo.
In Winicott C., Shepherd R., Davis M. (a cura di) (1989),
Esplorazioni psicoanalitiche. Raffaello Cortina. Milano.1995.


12 commenti:

  1. Ho trovato quest'argomento molto interessante e complesso. Da "fruitore" si può incorrere nella tentazione di essere "ascoltati" da un amico, ma in seduta si comprende subito quanto sia importante che dall'altra parte ci sia tutt'altro che un amico.

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  2. Affrontare la Complessità del lavoro terapeutico può voler dire, da parte dei Sistemi coinvolti, venire a confronto con la propria visione infantile ed egocentrica del mondo, con la propria pericolosa onniscienza e onnipotenza. Grazie del tuo commento.

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  3. Che situazione triste che descrivi. E a farne le spese è poi il paziente. Mah.

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  4. Hai proprio ragione. Per noi professionisti non resta che fare appello alla (meravigliosa) bioniana capacità di apprendere dall'esperienza.
    Per i Sistemi coinvolti l'auspicio è di tenere sempre molto alta l'attenzione all'invischiamento, alla manipolazione, al controllo onnipotente e onnisciente, nemici molto pericolosi, come ho già detto.
    Grazie del tuo commento.

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  5. Trovo tremendo che il concetto di venire al mondo sia nei tempi attuali obsoleto e dimenticato. La maggior parte delle famiglie partorisce solo appendici, non un essere nuovo che a poco a poco deve andar fuori. D'altra parte se le famiglie non fossero soffocanti prigioni, forse non ci sarebbe bisogno di un terapeuta e quindi non ci sarebbero "rischi terapeutici"!!!

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  6. Quello che dici è interessante e aprirebbe lo spazio a molte discussioni.
    Non posso che essere d'accordo: troppo spesso i figli sono purtroppo considerati delle propaggini al servizio del proprio sè narciso e insaziabile di conferme.
    La famiglia perfetta non esiste e i motivi per cui la gente viene in terapia sono veramente infiniti.
    Ciò che troppo spesso viene dimenticato (?) è il senso di etica e di responsabilità che terapeuta e paziente mutuamente creano,
    al servizio della Complessità terapeutica che co-costruisce migliori e più ampi gradi di libertà.
    E si spera anche di felicità.
    Non è facile, ovviamente, ma il senso del lavoro terapeutico (sistemico e socio-costruzionista) è proprio questo.
    Grazie del tuo commento.

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  7. Mi chiedo quanto la famiglia sia generalmente in grado di comprendere la fondamentale esigenza di non "inquinare" la relazione terapeuta-paziente in alcun modo. E' come se compito primo del terapeuta debba essere quello di colmare le lacune cognitive ed intellettuali dei membri familiari e ahimé anche di alcuni invianti.

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  8. E' esattamente così. Ciò che a me personalmente colpisce e sconforta è la totale mancanza di empatia e la squalifica nei confronti del lavoro terapeuta-paziente.
    Serve ri-dare decoro a questa professione così bella e così difficile.
    La passione è importante, ma se non è accompagnata dal nostro rigore professionale non può bastare.
    Grazie del tuo commento.

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  9. Il rapporto tra psicoterapeuta e paziente è riservatissimo e nessun può intromettersi nella relazione professionale.Ognuno deve farsi gli affari suoi.

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  10. L'alto grado di riservatezza della relazione paziente-terapeuta è il primo necessario step perchè ci possa essere l'alleanza terapeutica e quindi un buon andamento e conduzione del lavoro psicoterapico.
    La comprensione e accettazione di questo dipende da una più generale fiducia nel metodo e dalla capacità di fidarsi del professionista, sia da parte del paziente che da parte dei Sistemi coinvolti.
    Mantenere netti e ben differenziati i confini è indispensabile.
    Dove questo non avvenga (per i svariati motivi sovraesposti) il lavoro è certamente destinato al fallimento.
    E purtroppo sarà proprio il paziente a pagare il costo più elevato di tanta superficialità e squalifica.
    Grazie del tuo commento

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  11. secondo me questa argomentazione è scritta benissimo..per me il soggetto è alquanto tirchio..ciò condiziona profondamente ogni sua azione, che seppure motivata in principio da un malessere interiore..un tentativo salvifico di se...un moto di rivalsa verso qualcosa che da lunga fiata lo opprime..tutto viene vanificato dall'avarizia..e dal "conserva più che puoi per l'avvenire"...complimenti Fabiola cuzzupoli

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  12. La questione che sollevi è un interessante cardine del problema.
    Il pagamento della terapia è un punto sul quale non è possibile tergiversare.
    La collusione tra sistemi amicali e non, può generare solo pasticci e cialtronerie che vanno assolutamente evitati.
    Terapeuta e paziente non devono avere rapporti in comune: sic et simpliciter.
    Tutto questo specialmente nell'interesse del paziente.

    Grazie del tuo contributo!

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